Se mi chiamassi Nguyen e avessi vissuto la guerra in Vietnam

06.10.2024
Se mi chiamassi Nguyen e avessi vissuto durante la guerra del Vietnam, la mia vita, la mia identità e il mio destino sarebbero stati molto diversi.
 
Ricordo i giorni prima che tutto avesse inizio…Erano tempi di speranza, di profumo di riso cotto a lungo nei tegami di terracotta e di risate dei bambini che giocano nei campi.
Poi tutto è cambiato all'improvviso, il rumore dei bombardamenti ha interrotto quest’innocenza. Il cielo si è oscurato, e la paura ha iniziato a diffondersi tra le famiglie, nei villaggi e nelle città. Il cuore batteva forte, mentre tutti ci preparavamo a fronteggiare l'ignoto. Molte di noi hanno visto gli uomini partire per il fronte, lasciando dietro di sé le loro famiglie. La vita quotidiana è cambiata drasticamente, portando con sè notizie di combattimenti, di persone care che rischiavano la vita e delle donne costrette a sopportare il peso della responsabilità. Avrei presto imparato a raccogliere il coraggio di affrontare l'incertezza, anche se il mio cuore era ricolmo di ansia.

In mezzo a questo orrore cosa potevamo fare noi donne?

Ci siamo unite, ci siamo organizzate per sostenere le famiglie in difficoltà, curare i feriti e coltivare i campi. Non si trattava solo di solidarietà ma piuttosto di un atto di ribellione contro la devastazione che ci circondava, di un modo per affermare la vita, anche nei momenti più bui.Presto però la brutalità della guerra mi si è presentata davanti senza sconti. Assieme a molte vietnamite sono diventata per così dire uno strumento di sfogo per i soldati.
Questi giovani uomini arrivavano da noi carichi di frustrazione, rabbia e paura, con gli occhi pieni di morte, e il nostro corpo diventava per loro un sorta di rifugio in cui sfogare tutto ciò.
Tra le nostre gambe, dentro i nostri corpi rilasciavano i loro liquidi impastati di un piacere disperato e tossico, veleno da cui spesso nasceva nuova vita, quei figli di una guerra che venivano poi abbandonati e mai più reclamati, reietti senza identità in un mondo che - quando tutto è finalmente finito - li ha definitivamente rigettati ribattezzandoli “amerasiatici”, incastrati in un iperspazio senza patria.


Nel frattempo, la  vergogna e la rabbia hanno invaso la mia anima, è cresciuta dentro di me una forza inattesa e ho aderito a movimenti clandestini di donne - le cosiddette guerrigliere - che lottavano per un Vietnam libero.

 
Nonostante tutte le avversità, non ho mai smesso di sperare. I racconti di chi era tornato dal fronte, le lettere scambiate tra famiglie, e le canzoni che cantavamo per incoraggiarci, tutto contribuiva a mantenere viva la fiamma della fiducia in un futuro migliore. La guerra è giunta al termine,  ma i segni sono ovunque: nelle mie cicatrici, nei villaggi distrutti, nelle famiglie spezzate, e rappresentano un tassello fondamentale nel mosaico della nostra memoria collettiva. 
 
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