Pecché so' nata femmena, pecché so' nata
Sono giorni complicati, le notizie delle ultime settimane mi pesano addosso come un macigno. Due ragazze uccise, una donna violentata qualche notte fa nella mia città, non finisce mai... e ogni tanto - confesso - vacillo anche io.
In questi giorni ascolto di continuo il nuovo album di La Niña, tengo lo stereo a tutto volume, canto forte fino a quasi perdere la voce, butto fuori la rabbia e la paura.... o almeno ci provo... perché - mi dico:
So' figlia d'a tempesta e nun me ponno 'ncatenà
Faciteme passà, faciteme passà!
(Sono figlia della tempesta e non mi possono incatenare
Fatemi passare, fatemi passare!)
Se non la avete ancora ascoltata, non sapete cosa vi perdete
Quando ascolto questa giovane cantante, vengo subito catapultata in un mondo che pulsa di terra, di sangue, di lingua antica e disobbediente, canta in un napoletano non sempre facile da capire, ma che sa di scelta poetica e politica, sembra un modo per dire: io esisto, con la mia voce, con la mia storia, con le mie radici che non chiedono il permesso.
Trovo molto interessante l’uso delle tipiche sonorità napoletane (con una punta di flamenco dentro), che non evocano la tradizionale immagine della donna felice, che balla e canta.
Con La Niña si sperimenta una voce che scuote e consola insieme. Le sue canzoni sono un misto di proteste, preghiere (laiche) e dichiarazioni, dai testi escono anime, corpi, parole...
C'è qualcosa di profondamente femminile nella tempesta cantata in questo brano: la fatica e la rabbia, ma anche la tenerezza che resta, la cura che non si estingue; si sente il coro delle madri, le sorelle, le donne che hanno abitato il silenzio e che provano a trasformarlo in voce, si sentono le donne che resistono senza far rumore, e quelle che urlano per tutte.
"'Sta femmena 'e niente mo vò tutte cose, mo vò tutte cose."
(Questa donna da niente ora vuole tutto, ora vuole tutto.)
"E tene na rraggia ca nun arreposa, ca nun arreposa."
(E ha una rabbia che non si placa, che non si placa.)
Nel canto di La Niña ci sono simboli che tutte le donne possono riconoscere: immagini che ritornano nei quadri di Frida Kahlo, nei corpi messi in scena da Marina Abramović, ma ci sono anche nelle cucine, nei turni di notte, nei figli cresciuti senza rete di protezione.
Come donna, come madre, come figlia, le riconosco... le rivedo nelle donne che nessuno cita, quelle che portano sulle spalle un carico invisibile e che non smettono di camminare e che sono figlie della tempesta, anche loro.
Il femminismo di cui abbiamo bisogno
Il femminismo che (ci) serve è quello che non parla solo a chi ha gli strumenti per capire; si interroga, sbaglia, include, sa che le differenze contano e che abbiamo diritto ad un amore senza paura.
E sa anche che il linguaggio può essere una casa ma anche una trappola, perché le parole ci definiscono, ma possiamo anche ridisegnarle... e dire "femminicidio" non è un vezzo, ma un atto di giustizia.
"Pe tutte 'e ferite ca c'ate lassato..."
(Per tutte le ferite che ci avete lasciato...)
"Nun l'ammo scurdate."
(Non le abbiamo dimenticate.)
E poi abbasso il volume e mi consolo ascoltando "Notte"...
La Niña non parla solo di rabbia e di lotta, ma anche di piacere, attesa, voglia di lasciarsi andare.
"Notte, famm' vè 'comme s'appiccia 'a luce 'int'a stu core."
(Notte, fammi vedere come si accende la luce dentro questo cuore.)