Le panchine rosse e le buone prassi dell’architettura sociale

30.04.2022

Da anni ormai si è diffusa, non solo in Italia, la pratica di istallare delle panchine rosse nelle piazze e nei luoghi di passaggio di città e paesi quale simbolo della lotta contro la violenza sulle donne o in occasione di femminicidi che hanno colpito intere comunità. 

Anche in Trentino, le amministrazioni pubbliche e gli istituti scolastici sono molto attivi in tal senso e promuovono numerose iniziative. Come spesso accade però, se non si trasmette un senso profondo e realmente condiviso ai simboli, si rischia di cadere nella perdita di significato degli stessi (come sta rischiando di succedere per il cosiddetto "posto occupato" e per le "scarpette rosse").

Alcuni giorni fa mi è capitato di partecipare ad una interessante riflessione sul tema nell'ambito del convegno "Fuori dall'ombra", organizzato dall'Università di Trento; ho così pensato di condividere con voi quanto emerso.... buona lettura!

La panchina rossa come elemento architettonico 

Facciamo un'utile premessa...

Forse anche voi come me, ovvero "comuni mortali" che di architettura e di urbanistica non ci occupiamo né ci intendiamo, nel pensare all'istallazione di una panchina rossa avete omesso di considerare che la panchina è innanzitutto un elemento architettonico che occupa uno spazio urbano e che come tale ha un suo impatto non solo simbolico nel contesto in cui è inserita.

I principi dell'architettura sociale 

Stanti così le cose, per provare a dare un senso profondo e condiviso al simbolo che la panchina rossa porta con sé - ovvero la lotta contro la violenza di genere - possiamo trovare interessanti spunti nell'architettura, nello specifico in quella che viene definita "architettura sociale".

Senza pretesa di essere esaustiva sul tema, segnalo qui che con questo termine si indica una modalità di progettazione che porta con sé una tensione a mettersi al servizio della collettività con l'obiettivo di individuare soluzioni che rispondano ai fabbisogni degli "utenti", più che a logiche di tipo estetico o autoreferenziale.

Quindi si tratta di una pratica del progettare legata alle necessità delle persone che abitano le città, dando vita a vere e proprie operazioni sociali e sociologiche.

Progettazione partecipativa

Un elemento molto interessante per la lotta alla violenza di genere risiede nella prassi che questo tipo di architettura persegue ovvero il coinvolgimento, oltre ai tecnici ed esperti in materia, anche degli utilizzatori degli artefatti: questo può portare infatti a città più sicure, in cui le donne possono sentirsi libere di muoversi senza paura.

Ma il coinvolgimento degli "utenti" permette anche che si realizzi la condivisione profonda del senso di quello che si progetta.

L'esperimento portato avanti lo scorso anno dall'università di Trento con gli studenti di ingegneria ne è proprio la testimonianza.

Sette gruppi di studenti hanno realizzato altrettanti progetti di installazione di panchine rosse da dislocare nei diversi atenei della città. 

Per fare questo, i ragazzi e le ragazze in concorso hanno dovuto approfondire il tema della violenza di genere in modo da poter correttamente interpretare l'argomento e proporre dei progetti coerenti con lo scopo.

Ciò significa che gli studenti sono stati coinvolti non solo come fruitori futuri delle panchine da loro progettate, ma l'esperienza fatta li ha resi più consapevoli sul tema della violenza di genere, combinando la progettazione architettonica con la sensibilizzazione culturale.

Per citare nel caso specifico l'architetta Lucia Krasovec Lucas (una delle relatrici del convegno): "Per andare fuori dall'ombra (titolo del progetto), dobbiamo prima fare lo sforzo di entrare nell'ombra per capirla".

Credo quindi che iniziative come questa siano un interessante spunto da applicare non solo alle panchine rosse, ma a tutte le iniziative che abbiano in animo di portare con sé un movimento di cambiamento culturale e di "rigenerazione umana" prima che urbana.

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